The Autopsy of Jane Doe, la recensione del film: un horror inquietante e claustrofobico, quasi accademico nel suo sfruttare gli elementi classici del genere con eleganza ed un certo rigor… mortis
È appena uscito in sala The Autopsy of Jane Doe, horror di André Øvredal con Emile Hirsch e Brian Cox. Il film è arrivato da noi semplicemente come Autopsy, per evitare la fatica di spiegare che “Jane Doe” nel linguaggio giuridico americano è il nome provvisoriamente assegnato a soggetti femminili la cui identità è ignota o tale deve restare. Eppure non era così complicato, no? Voglio dire, noi italiani usiamo parole come “odeporico” e “gargantuesco”, mica ci spaventiamo davanti ad una “Jane Doe”?!
Beh, oddio, forse in questo caso sì.
La trama di Autopsy
Contea di Grantham, Virginia. La casa dei Douglas è teatro di un vero e proprio massacro. Lo sceriffo Burke ed i suoi agenti rinvengono ben quattro cadaveri. Tre di questi, visibilmente martoriati, appartengono alla famiglia stessa. Appare subito evidente dalla scena del presunto crimine che i tre hanno cercato di scappare dall’abitazione. Non ci sono segni di effrazione, si fatica ad immaginare un movente. L’ultimo ad essere scoperto, poiché semi-sepolto nel seminterrato, è il corpo di una giovane donna, completamente nuda, di cui non è possibile stabilire l’identità. Una Jane Doe, appunto.
Lo sceriffo porta immediatamente il corpo della ragazza all’obitorio di zona, il “Tilden Morgue & Crematorium”. Lì il medico legale Tommy Tilden e suo figlio Austin, un tecnico abilitato, hanno appena terminato di eseguire un’autopsia. Austin sta per andare al cinema con la sua ragazza Emma (Ophelia Lovibond), quando lo sceriffo irrompe, chiedendo che vengano stabilite le cause della morte della giovane entro la mattinata successiva. È così che Austin, che vorrebbe lasciare Grantham e soprattutto l’azienda di famiglia, decide di rimanere ad aiutare il padre, rimandando l’appuntamento con Emma.
I due avviano immediatamente l’esame esterno del cadavere, che non palesa traumi evidenti. Tuttavia scoprono che i polsi e le caviglie della ragazza sono letteralmente frantumati, pur non presentando segni esterni di lesioni. La lingua le è stata asportata in maniera truce e grossolana. Gli occhi di Jane sono torbidi, come fosse morta da giorni, ma al momento dell’esame interno il suo torace sanguina, come fosse morta da poche ore. Mentre Tommy ed Austin cercano di spiegare scientificamente i dati raccolti, nell’obitorio iniziano a succedere cose sempre più inspiegabili e raccapriccianti.
Every body has a secret. Some just hide better than others.
Scene da un obitorio
Ci sono luoghi che incutono un timore innato, come i mattatoi ad esempio, o i cimiteri abbandonati, le chiese sconsacrate ed i vecchi manicomi. Gli obitori non sono da meno ovviamente. Negli ospedali sono nascosti, quasi sempre interrati. Persino le indicazioni sono difficili da trovare, forse per non turbare gli avventori. O forse per quel concetto un po’ religioso che persino io, con tutto l’amore per la scienza che ho qui sulla scrivania, non riesco a non comprendere; quello secondo cui i corpi morti, i cadaveri, dovrebbero essere lasciati in pace.
‘Che poi obitorio deriva proprio da morte. Quello è. Ti puoi nascondere dietro la medicina legale o l’anatomopatologia, ma non dietro il termine “obitorio”. L’obitorio è morte e non si scappa. E, non so se per questioni etimologiche o per uno strano scherzo fonetico, ma anche “morgue” (“obitorio” in inglese), con quel suo suono, ricorda a noi mangiaspaghetti proprio la morte.
C’è traccia di questa oscura sacralità anche nel “Tilden Morgue & Crematorium”. L’azienda di famiglia, nata nel 1919, conserva lo stesso edificio di allora, con i suoi condotti di aerazione e giusto qualche modifica. L’obitorio è ovviamente interrato, situato sotto l’abitazione dei Tilden, cui si accede con un ascensore tutt’altro che moderno. Da spettatori, in Autopsy, familiarizziamo prima con i lunghi corridoi e le luci al neon, con gli specchi e i lavandini che gocciolano e solo dopo con i Tilden.
La sceneggiatura (per chi suona la campana)
Le dinamiche familiari tra Tommy ed Austin saranno chiare sin dai primi dialoghi. Tommy, il padre, è un uomo di scienza, dedito ai dati ed alle prove, meravigliosamente interpretato da un Brian Cox così in parte che ti sembra quasi di averlo già visto lì, in quelle vesti. Il nostro Tommy è un professionista, un tradizionalista al punto tale da usare ancora le campanelle. Le campanelle, ci spiega lui stesso, venivano legate ai piedi dei corpi nell’epoca in cui distinguere il coma dalla morte non era facile come ai nostri giorni.
La Citazione
Emma: «A che cosa serve?»
Tommy: «Ad essere sicuri che sia morto. Un tempo era difficile distinguere una persona in coma da una morta. Allora i medici legali mettevano ai corpi delle campanelle e se sentivano un ‘tin’ capivano che qualcuno non era pronto ad andarsene.»
Austin (Emile Hirsch) è un tecnico abilitato sì, ma decisamente più empatico e coinvolto dalle emozioni umane. Non a caso, infatti, nei primi minuti ci sarà già chiaro che questa non è la vita che desidera. Nonostante questo, però, malgrado i progetti con Emma e il senso di costrizione, Austin resta a Grantham in virtù di quello “stringi i denti ancora un po’” che personalmente conosco bene.
Non vedremo mai, in Autopsy, la Signora Tilden. Tuttavia sapremo, grazie alla sceneggiatura attenta di Ian Goldberg e Richard Naing, che è morta – non è venuta a mancare, non si è spenta, siamo in un obitorio: è semplicemente ed ineluttabilmente morta – un paio di anni prima, lasciandosi dietro un grande vuoto ed un gatto, Stanley, cattivello come tutti i gatti. E come tutti i gatti, Stanley ha già capito tutto dall’inizio.
La sospensione della credulità
Hai presente quando, da lettore o spettatore, metti da parte palesi incongruenze narrative e ti affidi alla storia? Si chiama “sospensione della credulità”, si verifica quando accetti che un tale riesca a non spostare il piede da una mina per oltre due giorni, o che un tizio rinchiuso in una bara sotto terra riesca a telefonare. Io ho un rapporto bellissimo con la mia sospensione della credulità: mi basta una buona storia, non importa se per raccontarmela tu debba infrangere le leggi della termodinamica. Anche perché, con tutto quell’amore per la scienza che ho sulla scrivania, di fisica non ci ho mai capito un granché.
Proprio riguardo a questo aspetto, c’è un momento in Autopsy che mi ha colpita. Il momento esatto in cui ho capito che il film mi avrebbe avuta tra i suoi sostenitori. Fuori infuria la tempesta, come nella migliore tradizione horror. Attorno ai Tilden iniziano ad accadere cose strane: la radio cambia frequenza, gli sportelli si aprono. Ad un certo punto, però, senza scossoni o jump scare, succede l’inspiegabile. È un momento esatto, credimi. E lì Tommy ed Austin, che per quanto caratterialmente diversi sono due scienziati, fanno l’unica cosa razionalmente accettabile nel contesto: decidono di darsela a gambe levate. Beh, decidono di provarci almeno. Da lì in poi attorno a loro sarà un susseguirsi di eventi raccapriccianti ed irrazionali, che loro troveranno il modo di spiegare, nell’epilogo, analizzando i dati raccolti. Per quanto sovrannaturale sia la spiegazione, i Tilden ci arriveranno con un approccio scientifico. E scusa se è poco.
Øvredal, il norvegese elegante
The Autopsy of Jane Doe è il primo film in lingua inglese del norvegese André Øvredal. Øvredal è già stimato nell’ambiente per aver diretto il mockumentary Trollhunter, che non ho ancora avuto modo di vedere. La leggenda narra che la voglia di girare un horror gli sia venuta guardando The Conjuring di James Wan ed a ben vedere le due opere hanno in comune un certo amore per il classicismo di genere. Per Autopsy, dalla sua Øvredal ha avuto anche il favore di zio Stephen King e Guillermino Del Toro. Favori e critiche positive che il norvegese merita pienamente, perché bastano pochi minuti di Autopsy per capire con chi si ha a che fare.
Quella di Øvredal è una regia elegante, fluida, per certi versi sofisticata. In un horror? Sì. In questo tipo di horror? Esattevolmente, sì. Basta osservare le sequenze iniziali, quelle dell’autopsia di Jane Doe, per capire che nonostante la situazione ed il soggetto la sua camera non indugia, non insinua, non si “sporca”. E meno l’occhio di Øvredal si sofferma, più noi spettatori ci sentiamo a disagio, quasi colpevoli di assistere all’ennesimo, ultimo strazio di un corpo, un bellissimo corpo, che ha subito ogni tipo di tortura.
Per forza di cose, Autopsy è (quasi) completamente girato in interni, illuminato da luci artificiali. Fotografia e scenografia si prendono a braccetto e fanno un buon lavoro, ma non è questo che ti resta. Quello che resta è il sonoro, spesso squisitamente diegetico, derivante, cioè, da fonti interne alla narrazione. In Autopsy abbiamo a che fare con la radio, le campanelle e una canzoncina, una dannata canzoncina.
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Jane Doe: e giacque come corpo morto giace
E poi c’è lei, Jane Doe, che ho lasciato volutamente per ultima. Interpretata da Olwen Catherine Kelly, Jane Doe è bellissima, di una bellezza disumana, bella da morire. E non so se per merito della Kelly o della costruzione scenica, ma paradossalmente proprio il suo viso, che dovrebbe essere inespressivo (essendo morta), riesce invece a suscitare pietà, tristezza e terrore. I suoi occhi, quegli occhi plumbei, che ti fissano dallo schermo per interminabili secondi, contribuiscono a creare la tensione che caratterizza l’ottima prima parte del film. E da un momento all’altro quasi ti aspetti che possa muoversi…
Il finale di Autopsy
No, non ti dirò se Jane Doe si muoverà o meno, né se andrà a finire come nel video di Anna Molly degli Incubus. Ti dirò piuttosto che nel finale la spiegazione agli eventi c’è e che non la avevo nemmeno lontanamente subodorata. Forse non è appagante come vorresti, ma non è questo il punto. Ti dirò anche che non mi aspettavo quell’epilogo, elegante e cattivello, come il gatto Stanley. E che c’è un retrogusto amaro al solo pensare a tutte le Jane Doe nel tempo e nel mondo. Ti dirò infine che sì, val la pena concedere una visione ad Autopsy, perché se da un lato non racconta nulla di particolarmente nuovo, dall’altro lo fa con una delicatezza ed una maestria che non vorresti perderti.
Autopsy, la spiegazione del finale del film
In molti, ho notato, arrivano qui cercando “Autopsy spiegazione finale”. Evidentemente i minuti conclusivi di Autopsy non sono del tutto chiari. Azzardo una spiegazione del finale qui sotto, ma ovviamente procedi alla lettura solo se hai visto il film. Se non lo hai ancora visto, passa ad Autopsy, la scheda del film o lascia un commento, se ti va.
Spoiler come se piovesse.
[alert-warning] ATTENZIONE: spoiler sul finale di Autopsy[/alert-warning]
Dall’autopsia emerge che Jane Doe è stata legata, le sono state rotti polsi e caviglie, le è stata strappata la lingua, è stata avvelenata, paralizzata e costretta ad ingoiare un lembo di tessuto. Ha subito mutilazioni interne e pugnalate. È stata bruciata. Tutti i dati che Tommy ed Austin hanno raccolto portano ad un’unica spiegazione: il sacrificio umano.
Eppure il cervello di Jane Doe funziona: dal campione prelevato i due scoprono che c’è attività neuronale. Per questo non sono riusciti a trovare le cause della morte: Jane Doe è ancora viva. Nonostante tutto, nonostante le sevizie, nonostante loro stessi le abbiano asportato il cuore.
Dal tessuto trovato nello stomaco della bella sconosciuta, Tom ed Austin risalgono a due importanti dati: “Levitico XX XXVI” e una data, scritta in numeri romani, 1693.
Ogni uomo o donna trovati a consultare gli spiriti dei morti saranno condannati a morte perché accusati di stregoneria. Il sangue dovrà colare dalle loro teste.
È chiaro a questo punto che il corpo proviene dal New England e che le torture che ha subito sono coerenti con quelle imposte durante il famigerato processo alle streghe di Salem. Qui, ancora una volta, le due diverse filosofie di vita di padre e figlio di contrappongono. Austin pensa subito che Jane Doe fosse una strega e che il rituale di purificazione impostole secoli addietro non abbia funzionato. Tommy non crede all’esistenza delle streghe e si chiede piuttosto cosa abbia potuto generare, su di un innocente, l’ingiusto processo subito. Quanto può essere arrabbiata ed assetata di vendetta un’anima ancora attiva con un corpo morto e martoriato? Ciò che è certo è che qualcuno, tempo fa, ha portato quel corpo il più lontano possibile, seppellendolo probabilmente proprio sotto la casa dei Douglas.
Tommy spera che in quell’anima possa esserci ancora un po’ di compassione ed offre la sua vita a lei, in cambio della salvezza del figlio. Mentre il corpo di Tommy subisce le stesse torture inferte alla sconosciuta nel 1693, quello di Jane Doe si ricompone. Ecco perché esteriormente Jane Doe non appalesava ferite o lesioni: ogni volta che la sua anima – o il suo spirito – infligge una delle torture subite a qualcun altro, il suo corpo si rigenera.
Ma Jane Doe non ha pietà, come non potrebbe averne un innocente seviziato. Dopo aver torturato Tommy, il suo torace si ricompone ed i suoi occhi tornano castani. Mentre Austin, mosso a pietà, pugnala il padre sofferente, gli occhi di Tom diventano plumbei come quelli di Jane poco prima. Jane sta “trasferendo” la sua sofferenza su Tommy.
A differenza di Tommy, però, Jane non ha potuto avvalersi della pietà di nessuno e, di conseguenza, non ne ha per nessuno.
Alla morte di Tommy tutto sembra tornare normale, come se lo spirito di Jane avesse saziato la sua sete di vendetta. Austin sente la voce dello sceriffo Burke, intento a rimuovere il vecchio sicomoro caduto che blocca l’apertura della botola. Ma le intimazioni dello sceriffo (“apri”, in inglese “open”) si trasformano in quella dannata canzoncina che per il tutto il tempo la radio (le cui frequenze erano disturbate a causa del temporale) si ostinava a trasmettere.
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Austin è quindi in preda ad allucinazioni uditive. Ed è lì, sul soppalco che conduce alla botola, che vede suo padre, in piedi con gli occhi plumbei. Austin, terrorizzato dalla visione, urta contro la balaustra in legno rompendola e precipitando di sotto. Tutto ciò che Tommy ed Austin hanno visto e sentito da quando il corpo di Jane Doe è nel loro obitorio non è stato altro che frutto di un’allucinazione. Tutto, ovviamente, fuorché sofferenza e morte.
Dopo lo stacco scopriamo che la tempesta tanto annunciata dalla radio non c’è mai stata, anzi, la stessa radio proclama “la quarta giornata di sole consecutiva”. Lo sceriffo Burke e la sua squadra sono sul luogo, dove trovano i cadaveri di Tommy, Austin ed Emma. La scena che si presenta loro non è dissimile da quella vista a casa dei Douglas: nessuna traccia di effrazione, tre cadaveri martoriati. Burke dispone di trasferimento del corpo di Jane Doe fuori dalla sua contea, sino all’Università della Virginia.
Nel furgone nel quale viene trasferita Jane, la radio cambia improvvisamente frequenza, trasmettendo di nuovo quella dannata canzoncina. L’alluce sinistro di Jane Doe si muove per un attimo, facendo tintinnare una campanella che di fatto non c’è. L’ultima beffa di un’anima che non placherà mai la sua sete di vendetta.
[alert-success] FINE SPOILER[/alert-success]
- Sceneggiatura
- Originalità
- Regia
- Fotografia
- Recitazione
- Cuore
in sintesi
Autopsy di André Øvredal è un horror di impianto classico inquietante e claustrofobico, con un uso attento ed intelligente del sonoro e una regia elegante e rispettosa. Brian Cox ed Emile Hirsch danno una buona prova, anche se a restare davvero impressi sono gli occhi grigi di Jane Doe (Olwen Kelly). Un film riuscito, che se da un lato non racconta nulla di particolarmente nuovo, dall’altro lascia, con maestria e delicatezza, un retrogusto molto amaro.
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( votes)Autopsy: la scheda del film
Titolo originale: The Autopsy of Jane Doe
Nazione: U.K., U.S.A.
Anno: 2016
Durata: 86 minuti
Regia: André Øvredal
Sceneggiatura: Ian Goldberg e Richard Naing
Fotografia: Romain Osin
Montaggio: Patrick Larsgaard e Peter Gvozdas
Musiche: Danny Bensi e Saunder Jurriaans
Cast: Emile Hirsch, Brian Cox, Olwen Kelly, Ophelia Lovibond, Michael McElhatton
Genere: horror, thriller da interno, anatomia comparata (alla morte)
Data d’uscita italiana: 8 marzo 2017
- Se ti piace guarda anche: Split (2017).
- Trailer ita:
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Che poi non ci sono tipo altri dieci film che si chiamano “(The) Autopsy”? Far sparire il “Jane Doe” dal titolo non mi è parsa una grande idea.
André Øvredal (Salute!) sa il fatto suo, sono felice che il film sia uscito anche in questo strambo Paese a forma di scarpa, ogni tanto non è male che in sala ci sia qualche horror ben fatto come questo, e non le solite robe commerciali. Inoltre mi è piaciuto il tuo sottile modo di insistere su campane e campanelle, sono una delle trovate più riuscite, e gustosamente inquietanti del film 😉 Cheers!
Infatti, anche senza il “the” ne esistono almeno due o tre. Io già mi immagino la versione italiana di Sean Parker che fa «Senza il “the”. Solo “Autopsy”, è più pulito».
Viste le premesse, in futuro sentiremo molto parlare di questo regista con la “o” barrata. L’utilizzo del sonoro effettivamente mi ha colpita molto; anche il finale (il primo finale, quello vero), che ho trovato superbo, si basa proprio su un giochino uditivo. Ad avercene di “filmetti” così attenti.
FIlm molto interessante soprattutto per l’atmosfera e l’ottima prima parte, che mi conferma il talento di Ovredal.
Seppur non rivoluzionario, promosso. 😉
Vero. Buona parte delle soluzioni presentate sa di già visto, ma ad avercene di horror così studiati ed attenti. Promossissimo! 🙂
A parte il commento gratuito sul gatto “come per dire che tutti i gatti sono un po’ cattivelli” vorrei correggere la trama descritta: anche il gatto viene torturato dallo spirito malvagio e quando i Tilden lo ritrovano nascosto nella condotta dell’aria malconcio lo sopprimono. Quindi ci lascia la pelle pure il povero micio che aveva già capito…
L’ho appena finito di vedere.. “caldeggiato” con insistenza da un
amico ma alla fine mi ha un po deluso nella parte più squisitamente horror, la storia invece è interessante quanto basta:
-la creatura non fa paura.. sembra la “solita” mummia anoressica
-gli spaventi sono pochi e “prevedibili”
-il finale manca di impatto.. magari è anche buono ma visivamente è debole
Sufficiente ma molto sotto a veri horror come il pazzesco HOUSE OF THE DEVIL (quello di TiWest) !
Ho avuto modo finalmente di vedere il film. L’atmosfera è elegante, ma la trama è scontata sin dalle prime battute. Si capisce subito infatti che la ragazza stesa sul tavolo è una strega e che si sta rigenerando. Il resto, poi, ha l’amaro sapore del “già visto” ed il film lo si finisce più per curiosità che per un reale interesse. Mi ha deluso molto e penso che se avessi visto invece un film sulla Kuchisake-onna ci avrei guadagnato in spavento!
Ho visto questo film due volte, la prima al cinema perché mi aveva incuriosito molto il trailer quando uscì tre anni fa, la seconda in tv proprio ieri sera.
Ho voluto rivederlo, come faccio molto spesso con quasi tutti i film, perché al cinema mi aveva lasciato una sensazione di incompletezza, come se mancasse qualcosa. In effetti questo film parte molto bene, la trama è inquietante, la location molto sinistra e tetra, la storia non completamente scontato quasi originale, poi purtroppo si perde.
Proprio quando dovrebbe diventare ancora più angosciante e terrificante invece sembra rimanere col freno a mano tirato, come se il regista non avesse voluto osare di più. Eppure gli elementi c’erano tutti, l’atmosfera pure, bastava amplificarli, scatenarli, migliorare alcuni aspetti, aumentare le scene di terrore, insistere di più sui particolari, tipo i morti viventi e i fantasmi scatenati da J.D. dovevano essere più terrificanti, dovevano lasciare un senso di terrore e angoscia nello spettatore. Dal momento che padre e figlio scoprono che quel corpo non è un corpo normale, dal momento che iniziano le stranezze all’interno dell’obitorio, la storia dell’orrore purtroppo perde di potenza invece di essere un crescendo.
È come se il regista non avesse voluto calcare la mano su certi aspetti che in un film horror ci devono essere, è come se apparecchi per bene la tavola ma poi non mangi, per intenderci. Mancano la suspense, i salti sulla poltrona, quel terrore agghiacciante che ti deve lasciare un senso di inquietudine anche dopo che il film è finito. Peccato perché ripeto la partenza era buona, ma si perde strada facendo, soprattutto nel finale. Troppo poco impattante, sbrigativo, non degno di un film con due attori di talento e una trama solida, insomma un finale abbastanza deludente che poteva essere fatto meglio.
In conclusione averlo visto due volte basta e avanza, mi dispiace perché il potenziale c’era ma non è stato sfruttato, è un film che si lascia vedere ma poteva essere molto di più, alla fine ti lascia un senso di insoddisfazione.
Bastava aggiungere 30 minuti di vero orrore a quell’ora e mezza che dura il film, per ottenere due ore di horror che non si scordavano facilmente.
Nessuno mi ha ancora spiegato perché la fidanzata Emma scende con l’ascensore ma non dice una parola che sia una, neanche ci prova a chiamarlo, difetto più grande soprattutto inspiegabile del film a mio parere, anche perché se stai lì da solo tutto fai tranne che stare zitto…peccato