Young & Fab
Avrei tanto voluto che il biopic su Leopardi fosse un capolavoro, anche – o forse soprattutto – per quello spirto patriottico che mi parte ogni tanto, quella sensazione che provo in Piazza del Plebiscito o dinanzi ad una commedia di Edoardo o ascoltando il caro vecchio cantautorato italiano dei tempi che furono, quella nenia che mi riecheggia in testa e dice “sì, vabbé, adesso siamo poco più che caccole, ma se in passato siamo stati capaci di tanto, chissà cosa potremmo fare nel futuro”. Avrei tanto voluto andare a cena con uno statunitense, un inglese e uno svedese e poter dir loro “ehi, biondi, noi non solo c’abbiamo avuto Leopardi-quello-vero, ma c’abbiamo girato su anche un capolavoro nel 2014! Sucate!”. E invece no.
Leopardi è uno di quegli autori che ti impongono nella scuola dell’obbligo, ma che nonostante questo non riesci ad odiare: malaticcio, represso, sfigatissimo, incazzato nero e nichilista. Dai, Leopardi era un rocker, ma non uno qualsiasi, uno di quelli alternativissimi che – in vita – pochi seguono e pochi capiscono. Per intenderci, se Dante è più o meno come gli U2 (commerciale, pop, impegnato nel sociale…), con Leopardi stiamo parlando di un Jeff Buckley.
Tutta ‘sta perifrasi (visto? Pe-ri-fraaa-si! Le ho fatte le scuole) per dire che, insomma, un italiano non può non amare Leopardi, non può non essersi interessato alla sua vita ed alle sue esperienze, non può non riconoscerne l’immenso valore artistico.
Pertanto Il Giovane Favoloso non poteva essere un film facile: la figura di Giacomello è complessa, contraddittoria, ancora in fase di studio, ma soprattutto idealizzata da molti studiosi ed ex-studenti di liceo. Poi Giacomello non era certo uno che si godeva la vita, diciamo, quindi valla a fare tu una pellicola italiana senza la Capotondi e senza i doppi sensi a sfondo sessuale (questo si chiama flusso di coscienza, le ho fatte le scuole, davvero).
– Quindi, Moidil, dopo tutti ‘sti preamboli sgrammaticati, ci dici com’è ‘sto Giovane? È favoloso?
Mio caro amico, no, non é favoloso. Perché quando agli italiani parte l’autorialite, si salvi chi può.
O meglio, lo è all’età della giovinezza, a Recanati, in quel nido e in quel luogo che tanto vorrebbe abbandonare, lo è nella sua spasmodica ricerca di notorietà e in quei primi sintomi della malattia di cui ancora oggi non si è venuti a capo, ma lo è soprattutto nell’interpretazione di Elio Germano, esemplare, limpida, moderata.
Ma non lo è in quella seconda parte lunga, noiosa e pretenziosa, in quella regia troppo statica e tra quella fotografia e quella scenografia che fanno a gara per dimostrarsi il più autoriali possibili; non lo è in quelle scelte musicali un po’ così (Apparat, premiato pure a Venezia, eh) ed in quel suo rapporto col sesso gestito banalmente e grossolanamente.
Lo è nelle figure di Monaldo e Adelaide ed in quei dettagli disseminati su tutte le ipotesi fatte nel tempo sui suoi malesseri (scoliosi, diabete, disturbo bipolare, morbo di Pott, turbecolosi ossea); non lo è nel personaggio di Ranieri ed in quel tralasciare tutta la tarantella delle sue spoglie, che forse non sono nemmeno sue.
Ecco, secondo la Moidil sedicenne che studiava Leopardi, l’umorismo nero sui suoi resti a Giacomello sarebbe piaciuto un sacco. E invece no.
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Spero di riuscire a vederlo al più presto, sono molto curioso.
Io ho dato un sette, in generale, e forse può andare bene con le tue tre stelle più. Era un lavoro complicato, impossibile, rischioso, ma ho apprezzato. Non mi è piaciuta la regia, teatrale e piattissima, in cui l'unica cosa degna di nota è una colonna sonora piuttosto moderna che a tanti ha fatto storcere il naso, ma che a me è piaciuta davvero. Anche inquietante, a tratti. Ma il parlarne bene non è per il film in sé, ma per Germano, che è meraviglioso. Anche su scala internazionale: non solo perché in italia abbiamo tanti cani. Piaciuto molto anche Riondino, anche se ho trovato molte, troppe cose inespresse nel loro rapporto. Da vedere, sapendo che Leopardi non era solo questo. Ma da vedere.