Se dovessi soffermarmi razionalmente su Interstellar, ultima opera di quel geniaccio di Christopher Nolan, probabilmente farei notare quella parte iniziale un tantino dispersiva, oppure quella seconda con un paio (o forse più) di buchi neri nella sceneggiatura, o ancora quella chiosa un tantinello illogica. Ma non ha senso star lì a razionalizzare quando si hanno di fronte opere del genere, pellicole in grado di destabilizzarti durante e dopo la visione.
Siamo in un futuro imprecisato e le cose non vanno tanto bene: l’ultimo prodotto ottenibile per mezzo dell’agricoltura è il granturco, ma la sua coltivazione non durerà ancora a lungo. La terra, la natura, in Interstellar non vanno scritte con la lettera maiuscola, perché Jonathan e Christopher Nolan, autori della sceneggiatura, abbandonano concetti estremamente inflazionati dal cinema (e dalla letteratura) degli ultimi anni: finalmente l’uomo non è (solo) un approfittatore egoista e finalmente la natura non è un’entità che si ribella. Le cose succedono perché devono succedere.
Murphy’s law doesn’t mean that something bad will happen.
It means that whatever can happen, will happen.
La realtà non è che una mera conseguenza, un’evoluzione naturale delle cose. L’unica colpa dell’uomo è quella di aver accettato il ruolo di guardiano, di aver acconsentito ad una sorta di regressione del progresso scientifico, di aver accolto l’abbandono della tecnologia in una triste rassegnazione alla morte. Ma l’uomo non è destinato né alla sopportazione né alla sottomissione, l’uomo è un esploratore, dominato dal suo istinto di sopravvivenza.
Siamo in una fattoria, perché oramai tutti dobbiamo coltivare, tutti possiamo solo coltivare. Non c’è più un esercito e nelle scuole si leggono libri di scienze deformati in base alle necessità. Cooper (Matthew McCounaghey), ex-astronauta e padre di due figli, sente il peso dell’essere nato quarant’anni in anticipo o quarant’anni in ritardo. Murph, la sua brillante figlia, nota dei fenomeni strani nella sua stanza: qualcosa o qualcuno (forse un fantasma) cerca di comunicare con lei attraverso la libreria.
Una fattoria, un padre vedovo, due figli, il grano, degli strani segnali… già, Signs (2002). Qualche giorno fa, scherzando su queste pagine, si diceva “sembrerebbe che Nolan si sia mangiato Shyamalan” ed effettivamente mai frase fu più giusta, soprattutto se si va oltre questi riferimenti e si analizza il messaggio finale del film… Ma procediamo con ordine
Gli strani messaggi, decifrati da Cooper e Murph, sono delle coordinate che portano i due… alla sede della NASA, o almeno a ciò che ne rimane. Lì padre e figlia incontrano il professor Brand (l’immancabile Michael Caine), sua figlia (Anne Hathaway) e Doyle (gli occhi più belli d’America di Wes Bentley), intenti nel preparare una ambiziosa ed ambigua missione: trovare un pianeta che possa ospitare la vita e permettere quindi alla specie umana di sopravvivere, sfruttando un wormhole messo lì da “loro”. Perché “loro” vogliono che noi ci salviamo.
Un countdown emozionante ci accompagna dal viale polveroso della fattoria fino all’oscuro, silenzioso, spaventoso infinito. Ciò che segue è puro spettacolo, intrattenimento da togliere il fiato, ritmo instancabile, scelte musicali delicatissime, momenti sinceramente divertenti, un elaborazione del tempo angosciante, un concetto di natura che finalmente passa dall’essere entità astratta a pura scienza, composta da fenomeni chimici e fisici privi di alcuna morale.
Ciò che segue è, concettualmente e visivamente, una delle esperienze migliori vissute in sala quest’anno.
Nolan, considerato dai più un regista mainstream dedito al blockbusterone, mette su uno spettacolo meraviglioso e zeppo di influenze, aiutato da un budget interstellare che gli permette di chiamare in scena i migliori attori sulla piazza: oltre ai già citati McCounaghey e Hathaway, tra i personaggi secondari troviamo la bellissima Jessica Chastain (Mama, Zero Dark Thirty) e Casey Affleck (Gone Baby Gone), in grado di lasciare il segno anche in un ruolo tutto sommato piccino picciò.
(Ah, sì, e poi c’è anche Matt Damon).
Visivamente, forse, Interstellar è meno mastodontico di quanto ci si potesse aspettare, a meno che non si consideri il fatto che il suo cuore centrale duri solo pochi – pochissimi – minuti, nei quali la quarta dimensione (il tempo) viene raccontata magistralmente in un beffardo non utilizzo del 3D.
Concettualmente Insterstellar sembra vagare nello spazio tra mille allegorie e significati, per poi soffermarsi sul semplice fatto che anche l’astronauta più esperto o lo scienziato più preparato saranno sempre dominati dal sentimento: l’amore di un padre per la figlia, l’amore di una donna per il suo uomo o anche l’amore di un uomo per se stesso.
Perché l’amore è la sola cosa che trascende tempo e spazio.
Come aveva fatto in Inception con la canzone di Edith Piaf, questa volta Nolan fa sua una poesia di Dylan Thomas, dedicata dal poeta al padre morente di cancro, che qui diventa quasi una preghiera, fatta da un padre immaginario ai suoi figli, sul non arrendersi, sul lottare fino all’ultimo.
Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
L’uomo è un esploratore, dominato dal suo istinto di sopravvivenza e… dall’amore. Non è la natura, ma l’amore che qui assume il valore di entità astratta, in grado di attraversare le cinque dimensioni e salvare ciò che di buono abbiamo fatto. È l’amore a far da collegamento con il futuro dell’umanità attraverso l’oggetto meno tecnologico che possa venire in mente: una polverosa libreria.
“Loro” vogliono che noi ci salviamo.
I detrattori hanno già iniziato a svangare l’anima attaccandosi allo spiegone sull’ambiente alcalino ed a quello con il foglio di carta, o al poco peso dato alla morte di alcuni personaggi, o ancora a quel concetto finale, espresso senza lasciar dubbio, così banale.
Un concetto shyamalayano, così banale sì, eppure così potente.
Una fede che trascende religione e scienza.
Nel 2007, Delirio Cinefilo, un cineblogger che ha chiuso portandosi via tutti i suoi preziosi scritti (era il migliore tra noi, ma davvero, non nel senso in cui lo dice Brand nel film) riguardo la pellicola di Boyle scrisse:
Sunshine è Alien, solo che Alien è Dio.
Ebbene, nel 2014 siamo giunti al livello successivo.
Interstellar è Alien, solo che Alien è Dio, solo che Dio siamo Noi.
☛ Leggi anche: Blogger Dixit, il meglio della rete su Interstellar
2001: A Space Odyssey (1968), Signs (2002), Inception (2010), Gravity (2013).
Ehi, grazie di aver letto sin qui. Se questo post ti è piaciuto, puoi supportarmi facendolo girare sui social e sul webbe, perché sì la felicità è reale solo quando...
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Sto notando di essere uno di quelli che meno esalta questo film, pur essendomi piaciuto molto XD
Sempre più curioso. Non vedo l'ora di testare questo viaggio.
In realtà la prima parte l'ho trovata fatta bene e non dispersiva…….la dispersione inizia dopo….. 🙂
In realtà la parte sulla relatività generale è stata curate bene, almeno per quanto riguarda il fatto che è un film e non un documentario (i detrattori devono cercarsi altri argomentazioni). Io in generale i film li valuto nel complesso, dall'inizio alla fine e non per singole parti; per questo non mi ha esaltato.
Sunshine, e insomma anche lì qualche perplessità……….altro film
che parte bene e procede in modo "anomalo"…..anche se la regia l'ho apprezzata….
Ciao e buone feste!
Beh, a me anche Sunshine è piaciuto da far schifo… Forse quell'alone di misticismo che tanto affascina me, per gli stessi motivi infastidisce te.
Tanti auguri ed a presto!